La drammatica storia di Giovanni

Di famiglia benestante, ultracattolica e culturalmente di destra, Giovanni Sanfratello aveva conosciuto Aldo Braibanti nel 1959 all’età di diciannove anni, quando per l’epoca era minorenne. Nel 1961, compiuti i ventun’anni e la maggiore età, Giovanni decide di lasciare l’Università Cattolica di Milano e andare a Roma per dedicarsi alla pittura e vivere con Braibanti.
Niente di più normale. E invece no.
Il 12 ottobre 1964 il padre di Giovanni presenta alla Procura della Repubblica un esposto in cui racconta che il figlio, già da quand’era diciannovenne, era entrato “nell’orbita di uno strano individuo”, sospetto di “pederastia”, e la Procura apre un’istruttoria “in ordine a gravissimi fatti di plagio”.
Così, nel novembre del 1964, il padre, due fratelli e un cugino di Giovanni fanno irruzione nella camera della pensione dove il ragazzo vive con Braibanti, lo rapiscono e lo chiudono in una clinica psichiatrica; in quanto “plagiato”, a Giovanni viene impedito di comunicare con l’esterno, e persino di nominare un proprio avvocato. Terminata la lunga istruttoria, nel 1967 Braibanti viene arrestato e subisce un processo per “plagio”, mentre a Giovanni viene inflitta una terapia “riparativa” per “guarire” dall’omosessualità, una cura a base di elettroshock dalla quale il ragazzo non si riprenderà mai più.

“Il caso Braibanti” racconta tutte le fasi di un processo medioevale, celebratosi in Italia nel “rivoluzionario” 1968.


Lascia un commento